venerdì 7 aprile 2017

Facebook continua la sua lotta contro il fenomeno delle fake news

Il social network ha annunciato ufficialmente l’arrivo di uno strumento che permetterà di aiutare gli iscritti ad identificare le notizie false. Facebook sta lavorando duramente per lottare contro il fenomeno della disinformazione all’interno della sua piattaforma. Esploso con l’elezione di Trump, il fenomeno delle fake news ha generato molte discussioni e polemiche nel corso degli ultimi mesi tanto da aver portato all’intervento delle forze politiche di molti governi che hanno chiesto misure immediate e drastiche per risolverlo.


Il nuovo strumento sarà posizionato in cima al News Feed attraverso il quale gli iscritti potranno accedere ad una serie di consigli su come identificare le false notizie all’interno della piattaforma come verificare l’URL del sito, cercare le fonti e tanto altro. Trattasi di uno strumento indiretto che punta a sensibilizzare gli iscritti a comprendere meglio il problema delle fake news.

Con il debutto di questa novità, Facebook ha anche colto l’occasione per ricordare il suo impegno contro questo fenomeno. Il social network sta focalizzando il suo lavoro in tre aree ben precise. La prima è l’interruzione della possibilità di guadagno. Molte false notizie sono condivise per generare click e traffico pubblicitario. Non consentendo più introiti il fenomeno in parte dovrebbe scemare. In secondo luogo Facebook sta lavorando a strumenti per frenare la diffusione delle fake news come il sistema di segnalazione delle notizie dubbie.

Infine, Facebook vuole aiutare gli iscritti a comprendere meglio se le notizie sono vere o false e il nuovo strumento lanciato nelle ultime ore va proprio in questa direzione.

E' iniziata la Terza Guerra Mondiale?

Da molto tempo, ormai, la crisi della Siria, con i massacri e la distruzione del Paese, è diventata meno importante della sua narrazione. E la rappresentazione della crisi si è trasformata in un potente strumento della politica internazionale. Guardiamo con attenzione a ciò che è appena successo: nel giro di ventiquattr’ore o poco più, un isolato aereo dell’aviazione di Bashar al-Assad lancia bombe chimiche su un centro della provincia di Idlib occupato da ribelli e jihadisti e uccide un centinaio di civili; immediato parte lo sdegno internazionale; si riunisce il Consiglio di Sicurezza dell’Onu; ancora qualche ora e 60 missili Usa distruggono una base dell’aviazione siriana.


Tutto impeccabile, tutto regolato con precisione svizzera. Fin troppo, no? Perché Assad, che con l’aiuto di russi e iraniani sta lentamente vincendo sul piano militare, doveva compiere un gesto così folle e perdente? Perché gli americani, dovendo colpire, si sono limitati a un bersaglio così circoscritto? Perché i russi, che non potevano non sapere di quanto si stava preparando, hanno lasciato fare? E ancora: perché Trump ha così frettolosamente e clamorosamente smentito quanto aveva sostenuto per tutta la campagna elettorale (no al cambio di regime in Siria, sì a una intesa con Mosca) che lo ha portato alla Casa Bianca? Perché Putin ha così blandamente difeso l’alleato Assad in questa circostanza, visto che sostenere che l’aviazione siriana aveva comunque colpito un deposito di armi chimiche suonava come una mezza ammissione?

Da tutta la vicenda si leva un forte odore di teatro, di rappresentazione appunto. Che pare costruita per alleviare le difficoltà dei protagonisti, Usa e Russia per primi, che sotto tanti aspetti si somigliano. Partiamo dalla Russia. Vladimir Putin l’ha riportata in Medio Oriente non per un’operazione spot ma per una strategia di lungo periodo. Ha stretto alleanze importanti con Iran e Turchia, sta allargando l’influenza russa in Nord Africa (soprattutto attraverso la partnership con l’Egitto, decisiva anche per influire sulla situazione della Libia), prova a costruire un rapporto con Israele, spiazzando tutti con l’annuncio di voler riconoscere Gerusalemme Ovest come capitale dello Stato ebraico. Mossa che fi qui si era permesso il solo Costa Rica. Quando Trump, qualche mese fa, aveva fatto un blando cenno all’idea, era stato in pratica crocefisso.

Nello stesso tempo Putin sa di aver raccolto in Siria tutti i dividendi politici possibili. D’ora in poi per il Cremlino, da quelle parti, saranno solo grane: trattative di pace, sia a Ginevra sia ad Astana, che non portano a nulla e un futuro prevedibile a base di attentati e guerriglie. È il momento di pensare a qualcosa di nuovo per uscire dal pantano.

Trump non è messo meglio. La sua Siria è l’Iraq, dove tutto è fragile. Dopo gli anni dei finti bombardamenti di Obama contro l’Isis, i generali Usa hanno visto che cosa vuol dire condurre davvero una guerra in città: hanno ammazzato centinaia di civili a Mosul, proprio come avevano fatto russi e siriani ad Aleppo. I media, complici, coprono le stragi Usa ma i generali hanno fermato tutto. E poi c’è la grana dei curdi: appoggiati dagli Usa hanno aumentato le pretese e in Iraq fomentano il separatismo del Kurdistan, che ora vuol prendersi anche Kirkuk. Il che vuol dire alzare la tensione con la Turchia (che vede rosso quando si parla di curdi) e con l’Iran (nume tutelare del Governo sciita di Baghdad). In più, Trump ha bisogno di liberarsi della trappola in cui Obama e i servizi segreti l’hanno abilmente cacciato, ovvero il sospetto di essere troppo amico di Putin e succube (se non complice) della Russia.

È da complottisti pensare che questa crisi delle armi chimiche sembri fatta apposta per andare incontro alle esigenze sia di Trump sia di Putin? Chissà, forse sì. Ma se invece è no, in tutto questo c’è qualcuno che deve cominciare a tremare sul serio. Il suo nome è Bashar al-Assad. La soluzione al rebus siriano può passare solo per un accordo internazionale che metta d’accordo Usa e Russia ma anche Turchia, Iran, Arabia Saudita e Israele. E la condizione non sufficiente, ma necessaria, e in ogni caso altamente simbolica, è che il leader siriano si faccia da parte. Quest’ultimo teatrino, più che un aggravamento della crisi, pare una prova di dialogo.

domenica 26 marzo 2017

Australia: la Grande Barriera corallina è stata dichiarata morta

Si estende per oltre 2.000 chilometri su una superficie di circa 344.400 chilometri quadrati lungo la costa del Queensland, dalla città costiera di Port Douglas fino a Bundaberg, ma la Grande Barriera Corallina australiana è stata dichiarata morta dopo 25 milioni di anni. Meta sognata dai sub di tutto il mondo per ammirare il più vasto sistema corallino del mondo, con la sua variopinta fauna marina, era visibile anche dallo Spazio. Ma il processo si sbancamento ha ormai definitivamente intaccato il sistema.

Grande Barriera Corallina: il processo di sbiancamento


Già nel 2016 era scattato l’allarme tra gli studiosi e gli ambientalisti. I rilevamenti dei ricercatori della James Cook University, infatti, avevano evidenziato la situazione la situazione più grave mai registrata sulla Great barrier reef, sito inserito nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità. A causa dell’innalzamento delle temperature del mare, si è innescato un processo chiamato di “sbiancamento” che ha provocato la perdita del colore dei coralli e l’indebolimento dell’alga che gli fornisce ossigeno e nutrienti. Il generale deperimento ha provocato la morte dell’intero ecosistema.

La spettacolare barriera era considerata il più grande essere vivente al mondo, ma in realtà era formata da milioni di minuscoli organismi. L’85% della mortalità si è verificato in un tratto di 370 miglia di barriera compresa tra la punta di Cape York e appena a nord di Lizard Island. Gli scienziati dell’Australian Institute of Marine Science dicono che ormai sembra una zona devastata dalla guerra. Una vera tragedia.


Puoi sparare al ladro per difenderti?

Tar Liguria: “Legittimo sparare per difendere i beni aziendali”

È legittimo sparare all’interno della propria azienda se c’è pericolo di aggressioni o di furti: questo è quanto emerge da una sentenza del Tar della Liguria sul ricorso presentato da un imprenditore contro il prefetto di Savona, che gli aveva negato il rinnovo del porto d’armi per difesa personale.


L’uomo ne aveva richiesto il rinnovo dopo i ripetuti furti all’interno della propria ditta, dove ignoti ladri avevano sottratto a più riprese del gasolio.

Di fronte al rifiuto della prefettura savonese, l’imprenditore si era rivolto al Tribunale amministrativo della Liguria, spiegando peraltro che per motivi di lavoro ha spesso necessità di trasportare denaro contante per il pagamento di clienti e fornitori.

Il ricorso è stato accolto e il provvedimento con cui si negava all’uomo l’autorizzazione al porto di pistola è stato revocato.

Il ministero dell’interno è stato inoltre condannato al pagamento di duemila euro di spese processuali.

La sentenza dei giudici liguri rischia di rappresentare un precedente giurisprudenziale: un imprenditore, è il principio sancito dai magistrati, può usare legittimamente un’arma per difendere i propri aziendali all’interno del luogo di lavoro e in presenza del pericolo di furti.

Cosa dunque cambierebbe a seguito di questa sentenza?
Assolutamente niente. Niente di nulla, l’ordinamento giuridico non si sposterà di un atomo.
Come potrebbe del resto? Noi viviamo in un ordinamento di Civil Law, non di Common Law, non esiste il precedente vincolante.
Ed anche se volessimo trarne un indirizzo, capiremmo solo che la difesa, all’interno della legittima difesa, va proporzionata all’offesa, quindi ha senso che, in caso di conflitto armato, vi sia personale armato in un magazzino.
Le sentenze infatti sono un prodotto specifico legato ad un caso concreto e specifico.